“Dopo la tempesta”, recital shakespeariano ideato, diretto e interpretato da Federico Grassi.

Alla chitarra Alberto Bocchino. Installazioni di Roberto Gianinetti.

Da queste pagine avevamo già elogiato Federico Grassi come attore prettamente “shakespeariano”, pur consapevoli delle limitazioni che questi cliché comportano. Ai tempi s’intendeva fargli un complimento, che desideriamo ribadirgli dopo aver visto il singolarissimo recital (o monologo? o reading?) “Dopo la tempesta”, andato in scena domenica 25 ottobre al Teatro Civico.

Grassi si è spinto molto oltre l’omaggio al Bardo. La sua è stata un’autentica prova d’amore. Autore, regista e interprete di questa azione scenica, ha fatto interagire testo, musica e immagini in un percorso che ha saputo esprimere quella capacità di Shakespeare intuita da Harold Bloom nel suo saggio “The Invention of the Human”: creare ex novo personalità che riflettono l’uomo moderno – noi stessi, insomma, e il modo con cui ci concepiamo, senza spazio e senza tempo.

Rappresentare i viaggi metaforici nelle nostre esistenze è impresa apparentemente semplice, perché nelle opere di Shakespeare si trova abbondanza di monologhi adatti allo scopo; assai difficile, perché in un’operazione di questo genere occorre trovare un collante efficace, un filo rosso che leghi situazioni ed espressioni. Grassi c’è riuscito, a nostro parere straordinariamente, sbrigliando precisi e arditi artifici delle scienze del linguaggio. Ne abbiamo contati almeno tre.

Il primo è l’uso della sinestesia, non solo figura retorica, ma anche fenomeno che accosta stimolazioni provenienti da piani sensoriali diversi. C’è il frammento essenziale di Shakespeare, attraverso la voce recitante, ma c’è pure il suono della chitarra del bravissimo Alberto Bocchino, che, quadro per quadro, accarezza le corde con appropriate musiche di Dowland, Brouwer, Poulenc, Britten, Martin e del suo grande maestro Angelo Gilardino. Colpiscono poi le installazioni scenografiche di Roberto Gianinetti, volti scavati nel legno e stampati su carta a torchio manuale, montati su una struttura che ricorda una nave, simile a quella della “Tempesta” shakespeariana  in balia alle onde scatenate dal duca-mago Prospero.

Impressiona, poi, il modo con cui Grassi ha saputo cucire brani non così facilmente accostabili. Il suo procedimento è molto vicino, a nostro avviso, a quanto studia la pragmatica linguistica, che concepisce l’uso della lingua come una forma d’azione sociale. Grassi crea forme nuove, che potremmo chiamare “unità performative”, sequenze di atti linguistici consapevoli e finalizzati, in forma di monologo, di dialogo (Iago e Cassio), di flusso di coscienza o di citazione. Lo scopo è, appunto, quello di stabilire una comunicazione immediata con il pubblico, che nei testi shakespeariani, a quattro secoli di distanza, continua a riconoscersi, traendo spunto per sognare, commuoversi, sorridere, vergognarsi, fantasticare.

Il terzo, conseguente elemento è il fluido passaggio di ruoli, non solo scenici, ma anche sociali, segnalato da rapidi cambi di costume, da spostamenti da un’opera figurativa all’altra come stazioni di una via crucis. Chi parla è il protagonista, uno in corpo (Federico Grassi) e multiforme in voce: Prospero conduttore del gioco, Shakespeare accompagnatore epidittico alla scoperta dell’uomo, anche attraverso valutazioni espresse da altri commentatori, come Wystan H. Auden (“Il mare e lo specchio”) o Friedrich Nietzsche (“La nascita della tragedia”); e poi, appunto, Amleto, Iago, Otello e Macbeth.

Prende così corpo il cocktail di sentimenti che movimenta l’azione umana universale: l’agitazione, il tradimento, il tormento e la revisione dell’io, l’eterna infelicità, l’amore per il potere, l’odio, l’abisso inesplorato dell’essere, l’inganno, l’allucinazione, l’attrazione demoniaca per il male e, almeno in uno squarcio, anche l’amore. Non c’è mai l’amore “puro” nelle opere teatrali shakespeariane; Grassi, infatti, deve ricorrere ai sonetti 128 e 75 per trattarlo stilnovisticamente come veicolo per “elevare a sapienza la rude ignoranza”. Come insegna Guido Cavalcanti, l’amore penetra nel cuore attraverso gli occhi e sconvolge, spesso distrugge, accartoccia come una foglia ingiallita, che denuncia quanto si sia vissuto abbastanza.

Quando Federico Grassi ci aveva chiesto di leggere in anteprima il testo, oltre a dargli dell’adorabile sognatore e a predirgli sicuro successo, ci eravamo domandati se il registro non fosse troppo alto (anzi, il più alto possibile): il protagonista avrebbe preteso molto da se stesso e molto anche dal pubblico, forse non così preparato a tanti stimoli culturali, pluriconcettuali e trans-sensoriali. Ci rispose che valeva la pena di provarci e oggi, visto il consenso e lo scroscio di applausi degli spettatori, ci rendiamo conto che aveva perfettamente ragione.

Paolo Pomati