Don Ciotti a Vercelli: «La Chiesa stia “sulla strada” per rimanere vera ed accogliente»
Un fiume in piena: aneddoti, citazioni, esortazioni per dare sostanza al tema della “carità” incarnato nell’esperienza quotidiana «sulla strada» del Gruppo Abele. Così don Luigi Ciotti, con parole semplici e accorate, ha catalizzato l’attenzione di quanti, sabato mattino, hanno partecipato, in seminario a Vercelli, all’ultimo incontro dell’itinerario di formazione socio-politica della diocesi organizzato dal Meic.
Dopo i saluti dell’arcivescovo mons. Marco Arnolfo e del sindaco Maura Forte, don Ciotti ha preso la parola centrando tutto il suo intervento sull’esigenza che la Chiesa riaccenda la speranza proprio partendo dalla “carità”, ma non una carità disincarnata e teorica: «Io – ha detto – continua a vivere con i ragazzi della mia comunità, il Gruppo Abele, perché non voglio perdere il contatto con la strada. Non bisogna avere paura delle contraddizioni del presente, ma affrontarle, confrontarsi con la complessità, non stancarsi mai di dialogare. Come diceva don Tonino Bello: la Chiesa è per il mondo non per se stessa».
E poi via con la carrellata di personaggi e situazioni che don Ciotti, nella sua lunga vita di sacerdote impegnato sulle frontiere del sociale, della lotta alla mafia, al degrado e all’illegalità, ha incrociato: Falcone, don Diana, don Puglisi, papa Francesco. Ma in cima alla galleria di persone che hanno segnato la sua esistenza, significativamente, don Ciotti ha posto l’arcivescovo di Torino che ha accompagnato i suoi primi passi da sacerdote: padre Michele Pellegrino. «Pellegrino è stato un pastore eccezionale, con una capacità incredibile di dare gambe al Vaticano II. Ebbe la capacità di coinvolgere tutti nella conduzione della diocesi, aprendosi a una logica collegiale non usuale, così come non usuale era quel suo farsi chiamare padre perché, come ripeteva, “nella chiesa non ci sono ne eccellenze, né eminenze, ma padri, figli e fratelli”».
Don Ciotti, concludendo, ha sintetizzato quella che, secondo lui, deve essere la logica finale della dottrina sociale della chiesa: «Salvaguardare e promuovere la dignità dell’uomo specie quando è sotto scacco» e dunque soprattutto negli scenari delle emergenze più difficili «dalla lotta all’illegalità all’accoglienza dei migranti, dal contrasto alla mafia al recupero dei “relitti digitali” ingoiati dalla dipendenza informatica. La carità deve essere paziente, ma deve dare speranza. E la speranza ha bisogno di ognuno di noi, così come ciascuno di noi ha bisogno della speranza».
Il difficile compito di concludere la mattinata e l’itinerario di formazione diocesano e toccato al vescovo di Saluzzo, mons. Cristiano Bodo: «E’ arduo parlare dopo don Luigi – ha iniziato il prelato – ma mi pare che la parola chiave da lui evocata sia “la strada”, quella che ciascuno di noi percorre e che non ci può lasciare indifferenti. Il libro della Genesi ci insegna che, nel mondo, “tutto è buono e tuto è bello”, ma spetta a noi preservare il “buono e il bello”. E il percorso formativo voluto dalla diocesi eusebiana ci ha aiutato a comprendere come la carità, nelle sue diverse declinazioni, è la chiave per dare speranza. Così, nel corso di questi mesi, abbiamo parlato di carità organizzata, di carità accogliente, di sviluppo sostenibile, dell’inscindibile legame tra società e politica. Dall’incontro di oggi abbiamo anche compreso che la carità è “contagiosa”, ci porta direttamente sulla strada del buono e del bello».